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lunedì 14 settembre 2009
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Le ultime sette parole di Cristo
  
Haydn e la religiosità del ‘700. Nel corso del XVIII° secolo, come sappiamo, il pensiero religioso tradizionale entra in crisi: metafisica e teologia sono accusate di falsificare da sempre la realtà, mentre alla religione si riconosce un ruolo positivo solo entro una fase circoscritta del progresso umano, conclusa dalla visione quasi laica del cristianesimo e sostituita da poche razionali certezze che abrogheranno le varie confessioni; la fede deve allora limitarsi a promuovere le virtù etiche, civili, solidaristiche e caritative, occupandosi del mondo in luogo dell’oltretomba e stigmatizzando qualsiasi devozione come frutto di ignoranza superstiziosa. Le gerarchie ecclesiastiche vengono dunque aspramente contestate, la liturgia perde ogni senso, i sacramenti acquistano un significato puramente allegorico e l’ascesi rinuncia ad ogni esercizio spirituale che non riguardi la disciplina delle passioni. Queste tesi, egemoniche nella cultura laica europea, serpeggiavano anche nel cattolicesimo: potremmo infatti ricordare lo scetticismo mondano dei numerosissimi abati e il giansenismo che lottava contro l’autorità papale, gli ordini religiosi e la pietà emotiva del popolo, depurando la fede in una severa spiritualità estranea alle pratiche del culto, basata sulla meditazione intellettuale della Bibbia e una lettura in senso etico del Vangelo. Nel Ritorno di Tobia e nella versione sinfonica delle Sette Parole, traspare invece un ascetismo quale strumento di perfezione interiore tutt’altro che limitato a fini secolari; dal canto loro, mentre l’angusto spazio ormai concesso a questa pratica rappresentava l’ultimo residuo di una spiritualità sempre più impoverita, lo Stabat Mater e la cantata Applausus avevano già contribuito a definire l’ascesi come dura disciplina morale, vòlta a scarnificare l’anima dalla propria individualità per cogliervi un’energia capace di suscitare profonde emozioni. La stessa Schopfung parte dall’orizzonte sovraconfessionale del deismo e dell’illuminismo, per ribaltarlo in una visione ecumenica del cristianesimo entro cui rinnovare il senso e i contenuti della fede. Anche i lavori scritti da Haydn per la chiesa si staccano dal radicale laicismo del suo tempo, scoprendo nelle pieghe dello spirito settecentesco genuine possibilità di vita religiosa. Nelle messe emerge infatti un irriducibile senso del sacro, che stimola profonde considerazioni teologiche sui singoli momenti della liturgia, osservando da molteplici punti di vista l’idea del peccato, l’Incarnazione, la presenza mediatrice di Cristo, il suo legame col Padre e i rapporti fra Dio e l’umanità; una fede quanto mai salda, maturata da interrogativi a volte dolorosi, nasce allora da un intenso vissuto spirituale capace di aperture cosmiche, di momenti altamente drammatici, ma anche di quell’ingenuo candore e di quel senso mondano che riverbera da un’intima serenità. Il suo credo potrebbe quindi sembrare davvero estraneo alla propria epoca, se tale candore non germogliasse anche da una simbiosi con la religiosità dei semplici e quindi del popolo, che rispecchia una visione corale del cristianesimo austriaco interpretando sentimenti comuni entro un linguaggio comprensibile a tutti. Le voci soliste, portatrici di emozioni individuali che circolano entro una coscienza collettiva, rappresentano perciò soggetti mai separati da un gruppo che vive all’unisono gli eventi della storia sacra e i dogmi della fede. Riservando una scrittura semplice e leggera solo al genere della ‘Missa brevis’, Haydn predilige inoltre dimensioni fastose e monumentali che riecheggiano l’antico spirito barocco del cattolicesimo austriaco, ancora vivoa ben oltre la metà del secolo. Sono certo scomparsi l’anima crociata della Controriforma, i sogni missionari degli Asburgo, l’assolutezza schiacciante del divino e l’accettazione aprioristica del dogma; ma resta pur sempre il medesimo orizzonte popolato da angeli e umani, con la sua ricca vastità di spazi che si anima di raro fervore, di ebbrezze talvolta mistiche e di un’intensa devozione. Ben prima dei profondi mutamenti avvenuti nella sfera religiosa durante l’ultimo scorcio di secolo, da esso infine sorgerà l’austera immagine di un Dio ultraterreno che anticipa la riscoperta romantica del cattolicesimo più metafisico e della sua solenne liturgia. Gli esordi. Al 1749 circa risale la Missa “Rorate coeli desuper”: un lavoro in stile antico per la diffusa politestualità (diverse parti del testo cantate simultaneamente dalle varie voci del coro), i moduli tardobarocchi (imitazioni, cellule melodiche ripetute, costanti ritmi cadenzati), l’atteggiamento severo e il solenne taglio processionale. La stessa rete di corrispondenze che lega fra loro i singoli brani nasce da una mentalità razionalistico-simbolica di stampo barocco; il tessuto orchestrale di Kyrie, Gloria e Credo varia infatti un archetipo ritmico e melodico che riappare poi nel Benedictus, disegnando così un’ellisse che ruota sul perno del Sanctus e distingue gli aspetti del dogma concernenti il Padre, mentre l’Agnus Dei, elaborando il motivo dell’ “Incarnatus est” contenuto nel Credo, ne traccia un’altra che svela il significato teologico della vita di Gesù. Dopo la serena fiducia del Kyrie, l’esultante vigoria del Gloria e del Credo, la solenne ieraticità del Sanctus e l’ampio melodismo del Benedictus, questo Agnus Dei appare comunque il brano di maggior attrattiva della Messa: cullante immagine della missione redentrice del Cristo, che sfocia nell’intenso atto di preghiera del “Dona nobis pacem” con la profondità di un rapimento contemplativo; la condizione umana avvolta nelle tenebre del peccato prende in tal modo coscienza di sé fino a ribaltarsi in quella mistica ‘noche oscura’ dove l’anima, mortificandosi, si rende disponibile all’incontro con Dio. Nonostante l’illustre studioso haydniano H.C. Robbins Landon ritenga autentica la partitura, questa intelligenza così acuta e sensibile del cattolicesimo sembra tuttavia davvero improbabile per un adolescente alle prime armi com’era Haydn. Con la guida di Reutter, la Missa Brevis in fa maggiore venne composta fra il 1749 e il ’50. In una semplice ma solenne atmosfera festosa, il Kyrie bene interpreta la religiosità austriaca coniugando il dolore e la compunta implorazione dei solisti col senso di fiducia nell’inneggiante domanda di aiuto espressa dal coro; il giubilo solare del Gloria unisce barocco e classicismo, sovrapponendo alle reiterate figure orchestrali la piana cantabilità del dialogo fra le voci; una salda e spontanea fede collettiva traluce a sua volta dal taglio maestoso del Credo, dove la tessitura corale si distingue da quella dei soli, che intervengono nelle parti non dogmatiche del testo come l’”Incarnatus/Crucifixus”, i cui momenti oscuri e funebri obbediscono alla consuetudine quanto il passaggio dal clima raccolto ai trionfalismi del “Pleni sunt coeli” nel Sanctus e il ritorno dell’“Osanna” dopo il galante lirismo del Benedictus. L’intensa compostezza dell’Agnus Dei torna infine al motivo iniziale della peccaminosa condizione umana, sperimentato qui con ben altra maturità grazie al cammino percorso durante la Messa; il contrasto fra i toni compunti e la luce del “Dona nobis pacem” - che riprende serenamente la musica del Kyrie - sottolinea quindi l’avvenuta catarsi liberatoria dal dolore, accoppiando le parti estreme del lavoro come già il Gloria e il Credo, il Sanctus e il Benedictus, secondo un’ordinata geometria lontana dal barocco sovrapporsi di ellissi della “Rorate coeli”. Negli anni ’50 nacquero musiche per diverse occasioni liturgiche. Gli Inni de Venerabili Sacramento Hob.XXIIIc5 (1750) formano una piccola serie di motetti destinati alle processioni solenni del Corpus Domini, principale festa del cattolicesimo asburgico. In un clima di gioia e compunta serenità, i semplici tratti popolari delle melodie ricordano quasi le laude, mentre l’orchestra ridotta presenta una sobria tessitura tardobarocca mista ad elementi preclassici; diviene così tangibile quell’accordo fra musica ‘bassa’ e ‘alta’, tipico del ‘700 austriaco, che qui è anche segno di un incontro ecumenico fra classi aristocratiche, artigiane e contadine. Nell’Ave Regina Hob.XIII:3, la voce sopranile simbolizza l’innocenza e la purezza celeste con un’aria ancora acerba ma di limpido lirismo, cui gli abbellimenti conferiscono una grazia leggera; conoscendo bene il tipo di musica proprio del culto mariano, Haydn evoca in tal modo un’angelica figura giunta da mondi lontani e accolta con familiare deferenza nell’innodia corale del popolo. La musica sacra fra il 1767 e il 1782. Ben altra espressione stilistica e approccio all’immagine della Madonna rivela invece lo Stabat Mater del 1767: opera di ampie dimensioni e ricca sostanza musicale, in una tessitura spoglia e austera dalla cui sobria linearità, dosata anche nell’amalgama fra tonalità maggiori e minori, emerge un taglio oggettivo che depura i sentimenti devoti e contemplativi da ogni espressione di dolore; anticipando le marmoree superfici neoclassiche de Le ultime sette Parole e del Ritorno di Tobia, Haydn sembra dunque procedere oltre un’esperienza circoscritta al pietoso cordoglio e al pathos fideistico della spiritualità popolare. La commissione della cantata Applausus, giunta nel 1768 da parte dei cistercensi di Zwettl per celebrare i cinquant’anni di sacerdozio dell’abate Kollmann, lo trova pertanto disponibile a musicare un testo che descrive l’ascesi compiuta dall’anima per giungere al simbolico Palazzo della Gioia. L’opera esordisce con la Virtù che intende abitare il cielo; a sua volta la Teologia sottolinea i pericoli del dubbio e dei piaceri terreni, che si trasformano in disgusto e sofferenza, mentre le difficoltà incontrate nel corso della dura disciplina purificatrice divengono fonte di consolazione. L’anima può quindi entrare nel Palazzo, dove le antiche virtù pagane acquistano un valore cristiano; la Temperanza media infatti tra Scienza e Pietà, esaltando la moderazione come un faro che governa lo spirito e guida gli eroi nel costruire l’ordinamento giuridico dello stato. Un’overture, diverse arie, concertati a due o a quattro e un coro di chiusura rappresentano musicalmente queste tesi fondendo classicismo e maniera barocca nell’armonico incontro fra un ricco repertorio di allegorie musicali e una gamma espressiva che va dai toni squillanti, energici e maestosi alla calma di melodie morbide e lievi, ad episodi lirici, supplichevoli e contemplativi, a quadri agitati e corruschi, fino alla tranquillità e al vivace giubilo conclusivo. Lavori come questo facevano parte di un genere ancora molto diffuso nell’Austria settecentesca, denominato ‘Applausus’ per il suo tono encomiastico e celebrativo; l’esperta illustrazione sonora delle metafore testuali da parte di Haydn non nasce tuttavia soltanto dalla sua perizia artigiana, che poteva affrontare ogni tipo di composizione, ma anche da un modo di pensare in forme allegoriche trasmesso dal retaggio di una mentalità che risale al ‘600, quando l’élite culturale cattolica elaborò l’ideologia dell’Impero leggendo in chiave simbolica il cosmo, la natura, le arti, le varie confessioni e il compito universale degli Asburgo per scorgervi i segni rivelatori di un ordine segreto impresso al mondo da Dio. Quest’ordine a sua volta si rispecchiava nell’enciclopedica sintesi di ogni sapere e forma di civiltà, compilata da numerosi dotti della Monarchia, che abituò a guardare qualsiasi esperienza del passato come un’espressione di valori eterni e a rifiutare una visione della storia dominata dalla mutevolezza del tempo. Alla luce di un simile apparato ideologico, che era penetrato nella cultura del popolo tramite liturgie sacre e profane, la musica e le varie espressioni figurative, possiamo scorgere le autentiche radici su cui si basa in Haydn la concezione non progressiva del tempo e della storia; ma la grandezza del suo genio sta nell’aver trasformato quell’enciclopedismo conservatore in chiave di volta per la crescita di un linguaggio inedito, grazie al mirabile equilibrio tra comprensione delle forme musicali nella loro storicità, ironico rifiuto del loro cristallizzarsi e lucida intuizione di come il vero nucleo del passato fortifichi il presente e contribuisca a proiettarlo nel futuro. La più ricca espressione dello stile classico nasce dunque da un profondo ripensamento della cultura barocca, giudicata da Haydn tanto capace di contribuire a produrre il nuovo da suggerirgli una decisiva metamorfosi delle sue strutture. Nell’ambito della musica sacra, una chiara impronta enciclopedica permea l’intera Cacilienmesse del 1766. Questa partitura inaugura un quindicennio di felicissima produzione, che comprende le opere già esaminate ma anche altre sorte grazie a numerose commissioni giunte dall’esterno; solo due messe vennero infatti composte per gli Esterhàzy. Il mastodontico lavoro fu scritto da Haydn per la città di Mariazell, sede di uno dei principali santuari austriaci; l’originario titolo di Missa Cellensis venne sostituito nell’800 con quello di Missa Sanctae Ceciliae, appropriato non solo per il luogo di conservazione dell’originale ma anche perché la messa è un’autentica enciclopedia celebrativa della grande musica sacra in una monumentale sintesi aperta al nuovo. Lo stesso schema tripartito del brano d’apertura - con la complessa polifonia del coro nel trionfante primo ‘Kyrie’, la dolorosa implorazione solenne e reverenziale del ‘Christe’ affidata perlopiù ai solisti, e il ritorno della coralità nel secondo ‘Kyrie’ per il dinamico fugato che spinge la preghiera verso la gioiosa trascendenza conclusiva - rivisita con grande sensibilità un modello barocco vicino a quello usato da Bach nell’analogo movimento iniziale della Messa in si minore. L’esaltazione concitata che anima l’esordio del Gloria si ammorbidisce nell’ “Et in terra pax”, ma torna poi ad ampliare l’orizzonte fino a congiungere terra e Paradiso in un’unica lode; ritmi gioiosi e sereni sostengono l’umile inno del “Laudamus te”, cui segue il “Gratias agimus tibi” nella compunta solennità di una fuga drammaticamente agitata fra cupe implorazioni, stacchi dissonanti, climi più distesi e zone di intenso lirismo; la vigorosa pompa dell’orchestra apre con tratto deciso il concertato del “Domine Deus”, dal cui spessore emerge l’importanza centrale del binomio Padre/Figlio; l’oscura tragicità del “Qui tollis peccata mundi” concentra il senso di ogni dolore e sofferenza terrena, ma subito dopo il fresco giubilo del “Quoniam tu solus” esprime la solarità dei puri e dei semplici per Cristo, le cui mani altrettanto semplici congiungono il mondo celeste e quello degli uomini; il monumentale “Cum sancto Spiritu” sfocia quindi nel canonico fugato dal respiro sempre più ampio, che chiude il movimento in un clima festoso e disteso. Alla forma tradizionale ABA’ corrisponde la struttura del Credo, con una prima parte di grande impulso dinamico nell’ostinato piglio dell’orchestra che sottolinea la forza della fede. Nella seconda (“Et incarnatus”), il doloroso lirismo di un’aria per tenore muta in espressioni calde e serene su ‘homo factus est’, torna più dolce nell’evocare l’affetto pietoso di Maria e poi commenta con tristezza la parola ‘homo’, quale segno dell’amore di Cristo sacrificatosi per l’umanità; un’acuta sofferenza accompagna quindi il ‘Crucifixus’, punteggiato dai drammatici pp. del basso (‘sub Pontio Pilato’/’passus’/’sepultus est’) la cui voce quasi demonica immerge il brano in una tenebra mortifera. Con la parte conclusiva, il dinamismo dell’esordio acquista un carattere ancor più travolgente nell’impeto ascensionale di “Et resurrexit” e nell’inesausto trasumanare dell’emozione fino al culmine di un ‘Amen’ che suggella varie pagine animate già da un certo bruckneriano respiro espansivo. Al canto morbido e solenne del Sanctus fa seguito come di norma l’imperioso attacco del “Pleni sunt coeli”; un’angoscia sofferta e a volte quasi tragica percorre invece il Benedictus, dove l’implorazione e il dolore si mescolano ad aperture maestose e tratti più sereni. Funebre e cupo è infine l’Agnus Dei che, oscillando fra commossa preghiera ed escatologica certezza, coglie il nocciolo dell’anima cristiana, ribadito poi nel “Dona nobis pacem” con cui l’opera termina in un clima di fiduciosa aspirazione. In questa Cacilienmesse Haydn rappresenta dunque, con espressività variegata, una fede collettiva; dalle due messe per gli Esterhàzy all’altra Missa Cellensis del 1782, le opere seguenti proporranno invece tratti maggiormente personali coniugati alla familiare semplicità del cattolicesimo austriaco. L’ornamentale ricchezza concertante e le dorate sonorità dell’organo, strumento solista nella Grosse Orgelsolomesse del 1768, illuminano i passaggi più solari e decisivi di una composizione dagli sfaccettati chiaroscuri drammatici, creando un senso di mondanità che dona maggior spessore alle parti più intense e ombrose. Il Kyrie si muove infatti dai climi aerei di una distensiva solennità verso la malinconica e pregnante invocazione del “Christe”, per giungere poi nella ripresa ad episodi taglienti, ansiosi, e tornare quindi alla luce iniziale. Il Gloria passa da un morbido esordio a modi più concitati e incisivi, all’oscillare fra chiare tonalità maggiori e la compunta penitenza del minore nel “Gratias agimus tibi”, all’oscurità del “Qui tollis” che sfocia nel forte grido del “Miserere”, per sciogliersi nella cantabilità del “Suscipe” e terminare con esaltanti fugati nella gioia di una grande liberazione. Dopo un vigoroso inizio, il Credo addolcisce anche qui l’espressione sofferta dell’“Incarnatus” nella luce schiarita di “Et homo factus est”; ma proprio su queste parole s’insinua il cupo e dolente modo minore del “Crucifixus”, che cresce in dimensioni e intensità fino a sospendersi nell’attesa escatologica prodotta da un accordo maggiore dopo i sussurri del “Sepultus est”. Ad esso infatti segue il trionfo del “Resurrexit”, che anche nelle monumentali architetture delle ultime pagine conserva un certo tono familiare, presente poi nel calore domestico con cui Dio viene celebrato nel Sanctus; deferenza devota e giubilo sereno accolgono il Messo divino nel Benedictus, ampliando gli orizzonti del brano in una felice contemplazione della sua venuta. Limpido e lirico è infine l’inizio dell’Agnus Dei, che via via s’incupisce in un implorante dolore; anche alla fine di queste oscure pagine Haydn passa dal minore al maggiore, preparando l’entrata del vigoroso e rutilante “Dona nobis” che ripete la parola ‘pacem’ fra i gioiosi commenti dell’organo e un tripudio di voci che provengono a ondate da tutte le regioni dello spazio. Composta nel 1772 per il compleanno di Nicolaus Esterhàzy, la Missa Sancti Nicolai quintessenzia l’eredità del passato in una scrittura di adamantina purezza. Il lavoro si apre nella dolce compunzione e nell’accorata preghiera del Kyrie. L’esultanza del Gloria si sposa alla spontanea cantabilità del “Gratias agimus” ma anche al dramma del “Qui tollis” e al travolgente inno del “Quoniam”, ovunque ponendo la scrittura dotta al servizio di quell’espressione limpida che domina l’intera messa. In rigorosa forma ABA’, il dinamico Credo espone un’ammirevole sintesi del dogma; nella sezione centrale, la melodia cantabile riveste “Et incarnatus est” di una luce morbida e serena, mentre “Et homo” coincide nuovamente col “Crucifixus”; ma entrambi stavolta e si sovrappongono fino al termine del brano, comprendendo nascita e morte di Gesù in un unico destino. L’eleganza carezzevole del Sanctus accompagna le semplici espressioni devote del coro e il cantabile tema maestoso, sottoposto a notevoli sviluppi polifonici; altrettanto innodico é il ”Pleni sunt coeli”, col suo metaforico disegno che lega cielo e terra in un moto ascendente e discendente. Il dolce calore melodico del Benedictus accoglie con onore e devozione la presenza divina, elevandosi con suadente felicità nell'Osanna. L’Agnus Dei esprime invece una dolorosità luttuosa tipicamente austriaca, a volte davvero intensa; ma il “Dona nobis pacem” si stacca da questo clima, tornando alla serenità del Kyrie. Come il Salve Regina dell’anno successivo, questa messa esprime una religiosità spontanea che incarna davvero l’anima del cattolicesimo popolare. Le messe del 1775 e del 1782 sviluppano invece una profonda riflessione teologica, che dimostra quali altezze fosse capace di raggiungere il pensiero di Haydn. Sin dalla Missa Brevis Sancti Johannis de Deo viene infatti posto il motivo cruciale dei rapporti fra uomo e Dio, affermando il bisogno di un mediatore ma rendendo al tempo stesso problematica la sua natura. Rischia quindi di svanire la presenza del Cristo, finora così vitale e necessaria: nell’intimo e doloroso Kyrie l’umanità non si rivolge a lui, sapendo di doversi misurare con l’asprezza inflessibile del dogma nel trittico del Gloria/Credo/Sanctus, dove la stessa incarnazione e il sacrificio del Figlio vengono visti come agente volontà del Padre. Per colmare l’abissale distanza fra terra e cielo aperta da una simile riduzione dell’orizzonte religioso a Dio e da verità di fede drasticamente rivelate da una fonte incommensurabile, il Benedictus affronta il tema del Messo divino che comunica al mondo la Parola come momento critico e decisivo dell’intera funzione; lo evidenzia l’insolita durata rispetto alle altre parti del lavoro e il lirismo di una linea melodica che vorrebbe sciogliere ogni tensione, mentre l’organo crea un clima estatico preparando l’Osanna dove finalmente i cieli sembrano aprirsi. L’Agnus Dei svolge allora con grande poesia il consueto paradigma di espressioni dolorose che sfociano man mano nella serenità; ciononostante, questa pace interiore somiglia ad una condizione spirituale chiesta e desiderata più che davvero raggiunta. Con la seconda Missa Cellensis, Haydn costruisce un nuovo equilibrio fra uomo e Dio, dogma e devozione, che risponde ai problemi emersi nella Sancti Johannis de Deo ma che trasforma sensibilmente la materia del suo credo. Il Kyrie coniuga il motivo della luce con quello solenne di un’implorante preghiera, testimoniando il positivo sostegno della fede al mondo incerto e mutevole degli affetti umani. Il Gloria possiede un taglio trionfante e monumentale, riflesso anche nella maestosità cantabile del “Gratias agimus” dove l’immagine terribile di Dio svela il suo alter ego in Cristo che scioglie i timori dell’animo, e nell’intensità drammatica del “Qui tollis/Miserere”. La prima parte del Credo scandisce il testo in un ampio e vigoroso respiro; quella centrale riprende il motivo della dolorosa condizione umana alleviata dalla Vergine in un passaggio di cantabile dolcezza, mentre la vicenda terrena e il sacrificio di Gesù vengono vissuti con immedesimazione collettiva nel pathos corale del “Crucifixus”; ma la terza parte chiarisce un’esplicita volontà di oggettivare Cristo come Figlio di Dio, sottolineandone maggiormente il significato teologico rispetto alla valenza tragica del suo dramma umano. La deferente solennità del Sanctus conferma questa contemplazione di Dio come un essere distante, non più ridotto a dimensione familiare, ribadita dal Benedictus che intende la dolcezza stessa come attributo della superiore severità divina. L’inizio sofferto dell’Agnus Dei si scioglie in implorazioni liriche e accorate, con l’ampiezza profonda e maestosa di un canto che precede la fuga conclusiva sul “Dona nobis pacem”. In questa pagina tanto severa ed essenziale si concentra lo spirito dell’intera messa, che accentua l’aspetto sovrumano di Cristo e al tempo stesso mortifica la sfera troppo umana delle emozioni, per un esercizio di fede grazie al quale accettare l’incommensurabilità del dogma e raggiungere un rapporto finalmente sereno di alterità fra mondo e Dio. Le ultime Messe. Dopo questo lavoro, per ben quattordici anni Haydn rinuncia a comporre musica sacra: lungo periodo di silenzio, che in gran parte coincide con un’analoga astensione da parte di Mozart. Non abbiamo documenti chiari in proposito, ma potremmo comunque presumere un certo disagio di fronte all’attività riformatrice di Giuseppe II in materia liturgica ed ecclesiastica. Infatti, mentre le riforme di Maria Teresa avevano cercato di limitare l’ingerenza del clero quel tanto che bastava per guadagnarsi lo spazio necessario alla modernizzazione del paese, solo in parte il programma di quelle giuseppine obbedisce ad una strategia puramente politica, giacché la scelta di svincolarsi dalla Curia romana e dal papa favorendo la nascita di una chiesa nazionale spiritualmente riformata, di abolire i privilegi degli ordini religiosi e chiudere i monasteri contemplativi giudicati socialmente inutili, di combattere la devozione popolare come forma superstiziosa e di semplificare il culto fino ad un’essenziale liturgia priva di spettacolarità, implica una presa di posizione circa la fede che rispecchia le tesi del giansenismo, del razionalismo e del laicismo contemporaneo. Considerando anche un’ampia libellistica redatta dagli intellettuali vicini all’imperatore, che elaboravano ideologicamente la sua politica criticando l’istituto papale, la gerarchia e il loro modo di intendere la religione, il clima vissuto fra il 1782 e il 1790 era proprio quello di un rapido, forzoso abbandono di vecchie abitudini e consolidate mentalità da parte di un’Austria che sino allora poteva definirsi un modello di stato confessionale. Giacché il nuovo corso limitava certo ma non vietava l’esecuzione di messe solenni con voci e orchestra, Haydn avrebbe potuto continuare a scrivere musica sacra; non facendolo, dimostrò un silenzioso distacco e forse un’estraneità che rispecchiava d’altronde la spaccatura in corso fra classe dirigente e ceti popolari, ancora profondamente legati alla devozione e alla spiritualità cattolica. Dopo la morte di Giuseppe II e il breve periodo leopoldino, il ritiro di molte riforme e il richiamo dell’Austria ai sacri valori contro l’ateismo dei francesi accompagnarono una graduale rinascita del sentimento religioso. In questa atmosfera, dal 1796 Haydn tornò a comporre messe con regolare cadenza annuale per gli onomastici della principessa Maria Esterhàzy. La centralità di Dio e i nuovi rapporti fra umano e divino, motivi sorti negli ultimi due lavori prima della lunga pausa, vengono maggiormente sviluppati dalla Missa Sancti Bernardi da Offida; ma sin dall’inizio si respira un’aria nuova: dalla monumentalità del Kyrie emerge infatti un’anima esaltata quasi da sacro furore, che non si limita più ad inneggiare o ad umiliarsi in preghiera; un’energia volitiva travolge anche il Gloria, che amplia l’afflato melodico, il respiro sinfonico e la consistenza del coro in dimensioni colossali. Questo spiccato tratto eroico emerge anche dal ritmo sostenuto e trionfante della prima parte del Credo, cui segue una lettura dell’incarnazione e della passione di Cristo trasfigurata dal patetico lirismo di un dolce ma intenso sentimento d’amore, venato di dolorosa mestizia e compianto; anomala è invece l’apertura del “Resurrexit”, privo di ascesa e immerso in un clima di sofferta melanconia solo in parte fugato dalle luminosità di ‘Et in gloriam’, mentre più impulsiva che gioiosa è l’esplosione di ‘Vitam venturam’. Solenne e intimamente devoto è il brevissimo Sanctus, mentre nelle raffinate modulazioni del Benedictus affiora una dolcezza cantabile ma anche piuttosto cerimoniale. Dopo il forte dolore espresso dall’Agnus Dei, riesce perciò a convincere della propria positività solo l’eccitazione trascinante del ‘Dona nobis pacem’. Haydn elabora dunque un grande percorso interiore, che trova in conclusione la sua catarsi; ma la pace raggiunta ha un senso eminentemente collettivo, giacché nei tre movimenti che la precedono i solisti scompaiono e lasciano tutto lo spazio al coro. La comunità dei fedeli viene d’altronde percepita come massa e non più come insieme di individui; l’espressione religiosa del singolo si giustifica quindi e trova la propria identità solo entro un’organica moltitudine, che a sua volta riflette il popolo delle sfere celesti sovrastato dalla potenza infinita e maestosa di Dio. Ancora una volta, di fronte a lui le altre persone della Trinità svaniscono e Cristo medesimo ha un ruolo secondario; ma l’eroismo divino si trasmette anche all’uomo, che acquista in tal modo uno spirito e una dimensione ormai prossimi a Beethoven. Composta nel medesimo 1796, la Missa in tempore belli offre un rapporto più articolato fra solisti e coro; diversi movimenti vengono però concepiti in modo piuttosto inedito e singolare. Colpisce infatti la giuliva espressione di trionfo che nel Kyrie cancella ogni supplica e traccia di dolore, l’ampio dramma spirituale del Sanctus che dalla contemplazione di Dio - dolce e commossa ma poi solenne e grandiosa - giunge ad un’implorante richiesta di grazia e alla travolgente pienezza liberatrice della gloria celeste, e infine il clima del Benedictus timoroso per la venuta del messo divino; ma colpisce soprattutto l’irruzione della storia e dell’attualità nel solare andamento espansivo dell’Agnus Dei, brutalmente contraddetto da impressionanti rulli di timpani e tragici squilli di trombe che ricordano la guerra in corso come nodo cruciale da sciogliere per ottenere quella ‘pacem’ non a caso annunciata da fanfare vittoriose. Per la prima volta dunque, l’ambito sovratemporale del sacro viene obbligato a misurarsi con le sofferenze del mondo: segno di una spiritualità consapevole di esigenze nuove che permea l’intera messa, dove i temi religiosi indicano un senso al vissuto di Haydn, che a sua volta raggiunge la più limpida professione di fede come risposta ad urgenti domande personali; la drammaturgia soggettiva interagisce quindi con quella liturgica, in un perfetto equilibrio speculare. Possiamo scorgere i percorsi di questo doppio binario anche nei movimenti drammatici delle due sequenze maggiori. Il Gloria prorompe gioioso, risuonando in una dimensione colossale fino a divenire tempestoso e travolgente sulle parole ‘Deus Pater’; l’intensa melodia lirica del violoncello sul ‘Qui tollis’ esprime l’amore del Figlio e le suppliche dei fedeli in un’estatica commozione che sfocia nell’oscurità del ‘Qui sedes’ e nel ‘Miserere’, coniugando mirabilmente il dolore per il peccato ad un profondo sentimento di accordo con la pietà di Cristo. Al deciso inno baroccheggiante della prima parte del Credo subentra l’episodio centrale “Incarnatus/Crucifixus”, concentrato sul miracolo della trasformazione di Dio in uomo con espressioni di dolore e sofferenza per questo sacrificio, evento grandioso carico di superiore tragicità; nel vigoroso ascendere del “Resurrexit” Haydn sottolinea la parola ‘mortuorum’ arrestando la corsa del brano con accenti cupi e carichi di attesa, per poi riprenderla col giubilante ‘Vitam venturi’ in una splendida sintesi del concetto di morte e resurrezione. Il Kyrie più disperato mai scritto da Haydn apre la Nelsonmesse del 1798. L’oscurità e la tensione che avvolgono la partitura soffocano le medesime espressioni di giubilo di un Gloria e di un Credo cupi e nervosi; l’insistere sul motto “Et in terra pax” esprime d’altronde chiaramente lo stato d’animo e le intenzioni del compositore. Dopo la contemplazione ammirata e devota del Sanctus, la perentoria e dolorosa severità del Benedictus sfocia in un impressionante crescendo di trombe e timpani, dove ancora una volta torna l’immagine della guerra. Con l’intensa cantabilità del suo respiro melodico, solo l’Agnus Dei mostra un tono sereno e inverte finalmente i rapporti fra luce e ombra, usando passaggi dolorosi e drammatici per sottolineare ancor più l’esaltazione e il giubilo solare del “Dona nobis pacem”. La figura di Cristo assume quindi toni rasserenanti e consolatori, entro un paesaggio spirituale dominato dalla sofferenza e dall’angustia per il ridursi di ogni prospettiva storica ma anche per il contrarsi di una vita interiore che non riesce più a giubilare in modo pieno e luminoso; questa costrizione permette comunque di scoprire un nuovo fondamento della fede, resa granitica dalla coscienza dell’infinita distanza fra uomo e Dio come dal suo paradossale annullamento nell’attimo di massima tensione. Ricorrente immagine simbolica in queste messe haydniane di fine ‘700, il motivo dei timpani e degli squilli di tromba interviene minaccioso e drammatico anche nel Kyrie della Theresianmesse (1799), dove incupisce il dolce e disteso quadro introduttivo per poi scomparire di fronte al vigoroso trionfo monumentale del ‘Christe’; gli squilli stessi divengono allora una nota positiva nella felice ed esaltante prima parte del Gloria, dove un’umanità devota celebra la propria fede nella Provvidenza. Trascorrendo dalla pienezza lirica ad espressioni di supplica e severa maestosità fino a rabbuiarsi nel ‘Miserere’, la sezione centrale coglie invece nell’intimo i vari affetti relativi all’idea di peccato, che Haydn vuole vivere in tutta la sua mortificante profondità col necessario sostegno della fiducia in Dio. Il Credo si apre con un vigoroso movimento quasi militaresco, per commentare poi l’incarnazione divina con accenti sofferti che s’illuminano di lirismo in ‘et homo’, sottolineando il messaggio d’amore di quel sacrificio che nobilita la stessa creatura umana, e chiudere questa magnifica sintesi della vita di Cristo col clima teso, accorato e lugubre del ‘Crucifixus’. Il vigoroso e aggressivo ‘Et resurrexit’ conferma l’idea di un Dio guerriero, temibile e potente, cui si crede perché sconfigge il male: immagine che si sposa poi ad una lirica professione di fede (‘Sanctum Dominum vivificantem’/’Confiteor’), divenuta saldo patrimonio dell’individuo. L’atmosfera misteriosa del Sanctus cresce via via fino ad una monumentale perorazione, e si scioglie quindi in severa dolcezza fino all’inneggiante respiro del ‘Pleni sunt coeli’. Devoto e solenne appare il Benedictus, ma anche sereno fin quasi all’allegria; l’imperiosa cupezza e le invocazioni disperate dell’Agnus Dei richiamano però l’idea dell’umanità peccatrice, prima di concludere la messa con un ‘Dona nobis pacem’ lirico e trionfale. In uno spazio drammaticamente aperto fra il gigantismo dell’orchestra e la compunzione dei fedeli, la figura maestosa di Dio prende corpo anche nel Te Deum dello stesso anno, che esprime con grande efficacia una religiosità già piena di monumentale forza beethoveniana. Il coro mostra infatti quel piglio imperioso che sarà della IX Sinfonia, scandendo il testo in un modo sciolto, incisivo e melodicamente vario che produce adeguati contrasti fra la luce e l’oscurità di molti episodi; l’esaltata pronuncia dei versi, le interiezioni e i potenti unisoni delle masse corali si lasciano quindi alle spalle ogni residuo di spontanea confidenza con Dio. La musica sacra di Haydn entra nel nuovo secolo con la Schopfungmesse (1801), che traccia il profilo di una nascente religiosità unendo sfera individuale e collettiva in una simbiosi anticipatrice della Missa Solemnis. Provvisto come altri di un esordio lento e di un movimento veloce, il Kyrie mescola contrite suppliche e reverenziale serenità. Sebbene calino le ombre su ’Et in terra pax’, ‘Adoramus te’ e ‘Qui sedes’, il Gloria è percorso da un luminoso distendersi che in varie gradazioni tonali esprime la certezza del fedele, testimoniata da un’oggettiva professione del dogma superiore ad ogni dramma della coscienza. Lo stile del Credo sottolinea un’analoga oggettività, rivisitando il barocco con gli ostinati accompagnamenti degli archi, mentre l’“Incarnatus/Crucifixus” si svolge in un clima sereno fin quando l’immagine della Passione tinge il quadro di un doloroso senso di colpa: effetto del peccato originale che sprofonda l’uomo nelle tenebre, mentre Cristo non patisce più l’incarnazione giacché si umanizza e si sacrifica restando sempre sovrumanamente Dio. Il “Resurrexit” riprende i toni dell’esordio con grande attenzione al senso del testo e quindi con molte variabili espressive, che accompagnano la gioia dei semplici di fronte al monumentale apparire della maestà divina; l’anima raggiunge dunque la pace e viene liberata sperimentando ancora una volta la vertiginosa distanza fra uomo e Dio. La seconda parte della messa dimostra però come in questa estrema richiesta di fede la creatura non si trovi mai abbandonata dal Creatore, che addolcisce nel Sanctus la propria immagine sovrana e suscita un felice ossequio nell’intensa fragranza melodica del Benedictus dall’ampio respiro corale. Vertice dell’intera opera è comunque l’Agnus Dei, che passa dalla ieratica serenità implorante alla dolorosa compunzione attraverso un cantabile morbido e articolato. Dopo simili tetragone certezze, colpiscono le mezze tinte, i colori pastello, il gusto per un’armonia sfumata e soprattutto la scrittura limpida e lieve che rendono la Harmoniemesse del 1802 un lavoro assolutamente originale. Gli stessi contenuti espressivi indicano la presenza di un nuovo mondo interiore, che emerge subito dal Kyrie - l’unico composto da Haydn in tempo lento - il cui taglio monumentale appare venato di melanconia; dalla scioltezza del Gloria, per la sua aura ingenua e felice come per lo sguardo angelico che trascorre dal ’Gratias agimus’ al ‘Qui tollis’ in una straordinaria mutevolezza di tinte oscure e luminose; dal tono dimesso e quasi popolare del Credo, che culmina nella tessitura trasparente del ‘Resurrexit’; dalla mobilità coloristica e armonica del Sanctus, dolce, intenso e maestoso; dall’allegria spigliata del Benedictus e infine dalla dolcezza poetica del raccolto Agnus Dei, che man mano acquista un tono più sofferto finché il ‘Dona nobis pacem’ esplode gioioso in un clima di vittoria. Haydn riesce a coniugare con grande elasticità questo mondo di sottigliezze, gesti appena tracciati e dosatissime policromie con aperture monumentali e un taglio vigoroso che a volte assume un piglio militaresco; ma soprattutto dimostra un significativo rinnovamento stilistico, che respira ormai a pieni polmoni l’aria del romanticismo.
Ultimo aggiornamento ( mercoledì 16 settembre 2009 )
 
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